di Céline Menghi

Un tema che, per essere sempre da aggiornare, può sembrare senza via d’uscita!
Domanda: Come se ne esce?
Sulla scia di Matteo Bonazzi con il suo Kafka Davanti alla legge, che ci dice che per uscire bisogna entrare nella porta della Legge – riservata al solo Kafka, dunque singolare -, e su quella di Luisella Brusa, che insiste sul momento di concludere, richiamo un poeta: il grande Giorgo Caproni.
La poesia in questione è Il fischio (Parla il guardiacaccia), poesia della vecchiaia, forse sulle paure che la vecchiaia trascina con sé, dal momento che Caproni vi pone in epigrafe alcuni versi di Eschilo tratti dal Prometeo incatenato: Έμάς δέ φρένας έρεθισε
διάτορος φόβος (All’improvviso eravamo pieni di paura).

Un guardiacaccia, che sta giocando a carte con i compari – sappiamo quanto sia importante mettere le carte in tavola per arrivare a formulare una domanda di analisi! -, è richiamato da un fischio insolito, non quello del solito uccello notturno.
I compari gli suggeriscono di non uscire, non si sa mai in quale pericolo potrebbe incorrere, ma lui, mentre argomenta sulla solitudine e sulla paura di morire, li rassicura, si fa passare il fucile appeso al chiodo e decide di andare a controllare:

…“Lasciatemi perciò uscire.
Questo, io vi volevo dire.
Per quanto siano bui
gli alberi, non corre un rischio
più grande di chi resta, colui
che va a rispondere a un fischio”…

In un commento a questa poesia (da Sulla poesia, Roma, Italo Svevo Edizioni, 2016), lo stesso Caproni dice di aver visto nei compagni del guardiacaccia la parte di sé timorosa, e nel guardiacaccia quello che avrebbe voluto essere ma che purtroppo non è.
L’uscita comporta una decisione che a sua volta comporta un rischio – partir c’est un peu mourir… –, come per ogni atto: non sai esattamente che cosa è quel fischio che senti, ma il rischio di restare produce la stagnazione e l’appiattimento del desiderio: una forma di vigliaccheria.

Una volta usciti dall’analisi può capitare che le cose non si terminino lì, ma che si intraprenda la via della passe. In tal caso, verremo a sapere qualcosa di quel fischio che ha richiamato l’uscita, quando colui che sarà nominato AE, se lo sarà, ne darà testimonianza.

D’accordo, ma l’analizzante esce dall’analisi a volte semplicemente perché sta meglio, perché ha trovato un annodamento che tiene meglio, o che è riuscito a fabbricare da zero, là dove prima un reale infiammato lo impediva. Le uscite sono una per una, ciascuno a modo suo.
Oppure, ed è meglio per lui, continuerà ad entrare e uscire da quella soglia e ogni uscita sarà Un’uscita, anche se non L’uscita.

E l’analista? L’analista, nel corso di tutta l’esperienza, è colui che apre e chiude la porta, che fa entrare e fa uscire – o lascia uscire –, insomma una sorta di strano usciere!
Ogni seduta è unica, come ci insegnano Freud e Lacan. Si continua ad entrare e ad uscire.
Anche quelle sono uscite dall’analisi, il cui distillato è l’uscita finale e per questo diventa L’uscita, quella che ci fa dire: sono uscito dall’analisi.
L’analista, nella posizione di sembiante di oggetto, di scarto, posizione che lo separa da quella di supposto sapere, deve sapere cosa fare, o non fare, su quella soglia particolare che è la soglia del suo studio che a volte coincide con la soglia di entrata e di uscita dell’analisi.
Nella mia esperienza personale e nella mia pratica, sulla soglia dello studio si giocano attimi preziosi. Sfregarsi le scarpe sullo zerbino non è uguale per tutti, così come voltarsi o salutare o indugiare o filare via.
Quella soglia è tante soglie: è una porta girevole – si entra, si esce e così via -; talvolta è però la soglia di una fuga; talvolta, invece, è la soglia che si varca a partire da una decisione.
L’analista deve saper lasciar andare; talvolta deve sapersi mettere di traverso a quella soglia – dire: no, lei torna, voglio che mi dica ancora qualcosa -; altre volte, deve saper decadere dalla sua posizione di oggetto per quell’analizzante lì e restare mentre l’analizzante va: lo lascia andare.

Concludo con quello che Miller ha definito il «detto di Di Ciaccia in analogia con il detto di Anassimandro […]: la cosa attualmente più importante non è il passaggio da psicoanalizzante a psicoanalista, ma quello da psicoanalista a psicoanalizzante. […]È coerente con la concezione di Lacan secondo la quale il summum dell’analista è la posizione di analizzante. È un paradosso» (J.-A. Miller, Come finiscono le analisi. Paradossi della passe, Astrolabio, 2023, p. 222).

Oggi, che stiamo per avere un cartello della passe della SLP, dobbiamo tenere a mente quest’altra uscita: un’uscita che ha qualcosa del passo di danza, quando un corpo si espande all’esterno e poi, in un unico movimento, si riavvita su sé stesso: si esce come analista per rientrare come analizzante. Già, ma dove si rientra quando siamo usciti dall’analisi? Certo, può capitare di riprendere una tranche di analisi, ma, anche senza che si riprenda necessariamente un’analisi, qui , in questo passo di danza, si tratta di un doppio movimento – non di un Falso movimento, non è un vagare – per continuare a stare nella relazione di va e vieni con l’inconscio.
Risposta alla domanda iniziale: si esce, ma non se ne esce!