di Cristiana Santini

A partire dalla suggestione di Celine Menghi che ci ricorda: “partir c’est un peu mourir…”, provo ad addentrarmi nei meandri di questo rischio che lei evoca, di questo sentimento del “un po’ morire”, che si incontra (forse non tutti?) al termine di una analisi. In fondo la morte, finché si è vivi, non è che il simbolo di ciò che non si può sapere, il buco nero, l’incertezza assoluta, il non senso, il reale, ciò che non è nominabile, descrivibile, che non si può testimoniare, raccontare. La fine di una analisi è il passaggio per quel portale, il superamento della “passione per l’ignoranza”, quella passione che più di tutte incombe sul lavoro analitico, come ci ricorda Antonio Di Ciaccia: “Ora delle tre, nel transfert, la più operativa non è né l’amore né l’odio ma l’ignoranza. La passione dell’ignoranza è all’origine di quel processo in atto che è il discorso analitico e addirittura all’origine dell’elaborazione della teoria analitica”[1]. Si corre un rischio rinunciando alla cecità statica provocata dalle tre passioni dell’essere nel suo rapporto con l’Altro, l’amore, l’odio, che nutrono l’ignoranza, il non volerne sapere sull’inconsistenza dell’essere stesso, sulla banalità dell’esistenza, sul carattere effimero della conoscenza, senza fine e quindi inutile al bisogno di definizione, di garanzia che muove l’essere parlante. Tutto, a quel punto, si riduce all’atto, nel senso lacaniano di att-imo, momento di concludere, descritto nel sofisma dei tre prigionieri[2], ricordato nel testo di Brusa. Unico possibile compimento che, al di là del senso, ne produce un effetto, ha effetto di scrittura, di segno oltre la sua significazione, offre un ancoraggio e un sollievo allo strazio di tale scoperta. Una condizione paradossale in cui l’attimo, attimo di concludere, si fa vivere e il prima e il dopo sono narrazione sempre postuma, che racconta di qualcosa che non esiste, che è stato o sarà, necessaria al legame sociale; mentre la vita si concentra in quegli attimi di esistenza in cui c’è del soggetto che sa dove si trova la via d’uscita. Ma varcata la soglia, fatta quell’esperienza, in una analisi così come nella vita, il parlante, se vuole continuare a esperire dell’“esistenza”, dal lato della singolarità, (“L’essere è a livello dell’universale che è, come tale indifferente all’esistenza. …. L’esistenza, al contrario, è a livello della singolarità”)[3] deve continuare a rinunciare all’ignoranza, per tornare a vedere, per poter comprendere e di nuovo agire, in un perpetuo movimento, in cui ciò che conta è l’attimo del taglio. Come ha scritto Omar Battisti, si tratta di ritmo non di tempo. Forse potremmo dire che la fine dell’analisi è un battito, uno dei tanti battiti che compongono il ritmo di una vita singolare.

[1] A. Di Ciaccia, Introduzione, “La Psicoanalisi”, 27, p. 8.
[2] J. Lacan, Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata. Un nuovo sofisma, in Scritti vol I, Torino, Einaudi, 1974, p. 191.
[3] J.-A. Miller e A. Di Ciaccia, L’uno-tutto-solo, Roma, Astrolabio, 2018, p. 146.